giovedì 8 settembre 2011

Speciale Kim Ki-Duk


SPECIALE KIM KI-DUK
(Scritto dal sottoscritto per Officina Immagini Magazine) 

Kim Ki-Duk, nato il 20 dicembre 1960, oltre che essere il mio regista preferito in assoluto (lol), è considerato all’unanimità  uno dei più interessanti e talentuosi registi contemporanei, asiatici e non. In Occidente, il botto l’ha fatto con un’opera assolutamente imprescindibile come “Primavera, Estate, Autunno, Inverno…E Ancora Primavera” (2003), grandissimo successo di pubblico e critica, nonostante la non-facilità di un’essenza poco narrativa e molto artistica. Kim Ki-Duk è uno dei pochi in grado di creare quadri figurativi dal nulla assoluto e di riempirli di senso (di altri registi capaci di farlo, in questo momento, mi viene in mente solo Tsai Ming-Liang). “Primavera” è un film che sopravvive nell’immagine ed è un continuo, inebriante ciclo vitale.
Le stagioni scorrono, come la vita, e il film le racconta, gettandosi a capofitto in un impressionante abisso di profondità.

Ma prima cosa c’era? C’era il cammino artistico di un uomo che, per sopravvivere, faceva il pittore di strada a Parigi e che, in vita sua, ha visto pochissimi film, quasi tutti blockbuster americani. Ed è impensabile che da un occhio apparentemente inesperto, si possa debuttare con un capolavoro come “Crocodile” (1996), estraniante viaggio nelle solitudini generazionali e sessuali. Una famiglia tutta maschile allo sfascio che vive ai bordi di un fiume, una giovane suicida e un amore che si dipinge sull’orlo del grottesco (emblematica la scena in cui il nonno muore nella macchinetta del caffè, o ancora la sodomia con il cetriolo) e il poetico (le inquadrature subacque, le barchette di carta che fluttuano, traspotando il messaggio di disagio e malinconia), trascinandosi in un finale assolutamente spiazzante e quasi teatrale nel suo paradosso puramente romantico. La prima fase del cinema di Kim Ki-Duk è sporca, ma in grado di colpire alla perfezione con immagini sensazionali e racconti che traducono in narrativa i mali e le felicità dell’essere umano.




Nel semiautobiografico “Wild Animals” (1997), Kim Ki-Duk estremizza le proprie esperienze di immigrato Coreano a Parigi, cercando di tratteggiare il disagio di essere soli in una terra straniera. A volte lo fa con divertimento, toccando vertici da commedia (la scena in cui il protagonista non riesce a mangiare con le posate e i Francesi lo prendono in giro), altre volte scatenando quasi desolazione. Il film è il più sottovalutato in assoluto della carriera del maestro sudcoreano, eppure andrebbe rivalutato: nonostante sia minore di “Crocodile”, è un film di rara potenza e bellezza, dove cominciano ad emergere le basi del nuovo cinema Kimkidukkiano. Emergono i grandi personaggi femminili e quell’appassionato tentativo di estremizzare l’amore e le delusioni nelle relazioni umane (Assolutamente degna di nota la scena in cui la bella protagonista francese, stanca di essere picchiata dal fidanzato con il pesce surgelato, lo accoltella con lo stesso [!!!]). Tocca vertici grotteschi, quasi di cattivo gusto, eppure rielaborati con una poesia unica. “Wild Animals” è un film sull’amore universale (interessanti anche le riflessioni del conflitto tra Corea Del Nord e Corea Del Sud), ma soprattutto sull’arte e sulla sua funzione salvifica, ma che può avere anche funzione di approccio sessuale (la protagonista, totalmente nuda, chiede all’uomo di essere pitturata completamente di bianco). Nulla è totalmente buono o totalmente cattivo nel cinema di Kim Ki-Duk e questo emerge soprattutto nel finale, dove l’acqua (elemento chiave del suo cinema) sommerge ogni cosa.

Ma i suoi splendidi ritratti femminili emergono nel successivo capolavoro, lo splendido “Birdcage Inn”(1998), dove Kim Ki-Duk ricomincia nel suo meraviglioso tentativo di sputare su tutto e su tutti, ma con una speranza in più, che emerge in un finale ottimista, poetico ed estremamente riuscito. È un racconto di donne sole, sia fortunate ma insicure, come la mascolina e scontrosaHye-Mi, segretamente lesbica, che derelitte di un mondo in piena decadenza come la bellissima ed eterea Jin-A, costretta a prostituirsi. È un racconto di formazione, che spingerà le due protagoniste adolescenti alla riscoperta di loro stesse, in un mondo dove l’uomo è animale (e questo emergerà nel meraviglioso “Address Unknown”, dove gli esseri umani vengono costantemente paragonati ai cani) e dove viene costantemente deriso (paradossale la scena in cui sia il padre che il fratello di Hye-Mi contraggono la sifilide, dopo aver fatto sesso con Jin-a). Ma la spiegazione di tutto il film resta in un’immagine di significativa bellezza: Il quadro “Le Sorelle” di Egon Schiele, appeso sul bagnasciuga e poi paragonato alla foto delle due ragazze, prima nemiche e poi sorelle, e forse anche amanti (bellissima la scena in cui Hye-Mi si sforza di copiare ogni gesto dell’amata/odiata Jin-A).

Il percorso Kimkidukkiano troverà, però, la massima forza in un’opera devastante come “L’Isola” (2000), il suo capolavoro, dopo “Ferro 3- La Casa Vuota”. Un racconto di relazioni impossibili tra donne e uomini e di incomunicabilità (come spesso avviene nei suoi film, i personaggi principali o non parlano o parlano poco, mentre i personaggi secondari sfiorano spesso il logorroico) , che esplode in un delirio ai limiti del possibile, ma sempre sul versante poetico/romantico/artistico. L’uomo diventa un animale, che sia cane o pesce, è destinato ad essere tale. Per sentirsi uomo, l’essere umano cerca di lottare sul più debole: per questo il film diventa una parabola quasi insostenibile sulla violenza animale. I pesci (simbolo palesemente fallico) vengono macellati e ributtati vivi in mare, o stimolati con cariche elettriche, come stimolante sessuale. Le rane (simbolo legato all’organo genitale femminile) vengono uccise, spellate e date da mangiare agli uccelli (simbolo fallico), che vengono annegati vivi quando il rapporto s’incrina. Il cane (l’essere umano) viene sbeffeggiato e picchiato, mentre l’essere umano debole (la prostituta chiaccherona) è destinato a perire. È il suo film più sconvolgente e scomposto, cattivo, nonostante il ritmo lento, dove l’uomo e la donna non si comprendono e arrivano a disumanizzarsi per capirsi meglio (meravigliosa la scena in cui la protagonista pesca l’amato, dopo che l’ha nascosto dai poliziotti e poi, mentre lui agonizza lo sottomette e lo possiede)  o lasciano parlare gli oggetti (i pennelli che si strusciano l’uno sull’altro e che dimostrano di amarsi, molto più facilmente che gli umani; l’altalena/giocattolo, come gesto d’amore; lo sportello che funge da water nelle case galleggianti, come specchio tra il reale e la fantasia). E si può non parlare del finale? Il finale che ritengo essere il più bello in assoluto della storia del cinema? Che in un’immagine puramente simbolica distrugge tutto il castello di carte meravigliosamente concepito in precedenza e racchiude l’intero film? Opera d’arte.




“Real Fiction”(2000)  è, invece, un giochetto puramente digitale. Bellissima opera sulla frammentazione dell’io e sul disagio di essere artisti cinematografici incompresi, nonostante non sia tra i migliori di Kim Ki-Duk necessita sicuramente attenzione, soprattutto per quanto riguarda l’indimenticabile scena della ragazza morta a terra, accanto ad una telecamera rotta. Il sangue collega le due creature, ma non è scontato che sia della ragazza. La ragazza potrebbe anche fingere, e il sangue è della telecamera. Il cinema che muore, che è protagonista assoluto e anima fragile.

Il discorso dell’incomunicabilità tra i sessi, però, torna a riemergere nel capitolo successivo,  altrettanto imprescindibile: “Bad Guy” (2001). Film più complesso di quanto si pensi, che costruisce una storia d’amore impossibile e illecita tra due confini temporali diversi. Kim Ki-Duk confonde le acque: chi è la vittima? La ragazza costretta a prostituirsi o l’uomo che si becca il suo sputo dritto in faccia? E chi è il carnefice?
Kim Ki-Duk evita ogni spiegazione hollywoodiana, per trascinarti nel suo sogno puramente divino, immergendosi ancora nell’arte (Il catalogo di Schiele, regalato come pegno d’amore. Il quadro “L’Abbraccio”, che è l’incarnazione di un desiderio d’amore di una protagonista incredibilmente sola ed insicura) e nei disagi esistenziali dei suoi protagonisti. Meravigliosa la caratterizzazione della protagonista femminile che, come in tutti film di Kim Ki-Duk, è l’unione di più opposti: la dolcezza e la rabbia, la purezza e la sporcizia. E come spesso accade, è il personaggio più forte e combattivo dell’intera opera, pur nell’insicurezza. Ed è splendida l’immagine che sembra ritrarli in un momento di intimità meravigliosa, il preambolo di un bacio, ma che si conclude con lei che gli vomita sulla spalla.

In “Indirizzo Sconosciuto” (2001), la crudezza torna a farsi sentire quasi immediata. Emerge la rabbia di un popolo (i Coreani), succubi di altri (gli Americani). Ambientato in un piccolo paesino di provincia, negli anni ’70, è la storia disperata di tre adolescenti coreani, tra i quali emerge sicuramente Eun-Ju, il classico personaggio femminile di Kim Ki-Duk. Bella e ribelle, Eun-Ju ha comunque un grosso punto in sospeso: è orba, ed è tutta colpa di un gioco infantile (guarda caso che concerne anche una pistola, elemento chiave di molti film di Kim Ki-Duk, tra cui l’ultimo “Arirang” o “Time”) e questo le dà insicurezza, nonostante sia al centro delle attenzioni di un suo coetaneo. Il loro rapporto è impossibile: il ragazzo, per conquistarla, le dipinge un ritratto, dove non tiene i capelli davanti agli occhi, come invece fa sempre. Sarà nel momento in cui tutti e tre, per motivi vari, verranno riuniti in un fotogramma che li ritrae con un occhio coperto, che emergerà la sadica ironia dell’autore coreano, che qui dirige il suo film più cattivo e disperato. Sporco sin dalla fotografia sgranata, è un ritratto sconcertante degli esseri umani: sono tutti cani, dal primo all’ultimo. Pervertiti senza speranza (John), o assassini di animali (Il proprietario del canile, che poi verrà ucciso proprio come un cane: appeso e bastonato). 




Ma Kim Ki-Duk non ci va leggero neanche con un più pacato e raffinato, ma sicuramente spiazzante “The Cost Guard” (2002), disturbante riflessione del conflitto Corea del Nord/Corea del Sud, dove l’odio può portare anche all’uccisione di innocenti (due fidanzatini che amoreggiano sulla spiaggia) e dove la disperazione raggiunge momenti di pathos inarrivabili (la protagonista femminile, inerme davanti al corpo del fidanzato morto, avvicina la mano di lui alla sua bocca, ma non appena il campo si allarga, si vede che il braccio – in verità- è mozzato).

E non è leggero neanche un capolavoro come “La Samaritana” (2004), disturbante ritratto generazionale. Il primo è l’ultimo film di Kim Ki-Duk a concentrarsi sul mondo dell’adolescenza, ma non solo. Due ragazzine, belle, ricche e spigliate decidono, inaspettatamente, di prostituirsi. La motivazione sembra essere “Trovare i soldi per un viaggio in Europa”, ma è solo una scusa, e lo si capisce dal fatto che viene accennato solo una volta. Può darsi che vogliano fare una cazzata così grande da non potersi salvare, oppure di amarsi (ambiguo il rapporto lesbico tra le due, così com’è ambiguo il rapporto tra padre e protagonista, più da amanti che da parenti)  in libertà e con ingenuità.
Una delle due muore. E l’altra, disperata, ne prende le sembianze. In un gioco di specchi, di cui nessuno sembra accorgersene (i clienti). Un incantesimo che lascia presagire un inquietante presupposto: e se la ragazza morta (senza casa, né genitori, oltretutto) fosse solo un’allucinazione della protagonista? Protagonista che vorrebbe eliminare la sua purezza per essere donna (dorme ancora con l’orsetto, ma lo tiene tra le gambe; dorme completamente nuda; da ragazza pudica si trasforma improvvisamente in fanciulla vestita in modo disinibito). “La Samaritana” è il “Lolita” del Ventunesimo Secolo, un capolavoro di rara intensità che Kim Ki-Duk poteva non riuscire a superare.

E invece arrivò “Ferro 3- La Casa Vuota” (2004) e fu amore. Storia d’amore tra due derelitti (lui senza casa, lei senza amore) , che cercano disperatamente una vita normale e felice, continuando ad entrare nelle case altrui, ma senza mai rubare nulla e autofotografandosi sotto i ritratti di famiglia. Arrivano, vivono, scappano. E ricominciano il ciclo. Tutto sarebbe pefetto se non ci fosse il marito burbero, armato di Ferro 3 (strumento legato alla borghesia e alla noia coniugale, ma ancora d’allusione fallica) , che partecipa anche nella ricongiunzione dei due amanti, in quella che ritengo la scena di bacio più bella della storia del cinema. Si crea un grottesco corpo a tre teste, che dà idea sia di pace che senso di soffocamento. E alla fine, vita e morte, amore e odio si confondono, dietro gli eterei sorrisi di lei e le movenze ectoplasmatiche di lui. Il marito torna al suo lavoro borghese, e tutto si sistema. O quasi. Una tragicommedia dove sono i silenzi a dominare, dove tutto è volutamente è ripetitivo (la canzone della colonna sonora, i volantini, i gesti) , ma dove tutto si srotola nel cammino d’espiazione finale. Ed è capolavoro. Tra i migliori film mai realizzati.
Kim Ki-Duk ha un potenziale d’immagine veramente impressionante, che si riconferma nella sua famigerata trilogia “L’Arco” (2005)/ “Time”(2006)/ “Soffio” (2007), film incredibili e splendidi, ma incomprensibilmente stroncati dalla critica. Sono tre passi essenziali del cinema di Kim Ki-Duk e ne comprimono la poetica, raggiungendo momenti di bellezza inarrivabili (la scena de “L’Arco”, dove la bellissima protagonista diciassettenne di “La Samaritana” si addormenta in un abito da sposa, mentre una freccia viene sparata dritta tra le sue gambe), o sperimentando nuovi mezzi per sottolineare l’inquietudine (dopo i silenzi insistiti di “Ferro 3”, in “Time” prevale il dialogo, spesso inutile, a soffocare il terrore del silenzio assoluto), raggiungendo vette Pirandelliane (la protagonista di “Time” che piange indossando una maschera di sé stessa, sorridente e prima dell’operazione chirurgica), o con l’autocitazione rielaborata (le stagioni come ciclo vitale, in “Soffio”.)






Delle sceneggiature scritte per altri, si salva solo la prova di Jang Hoon, “Rough Cut” (2008), un film di cinema sul cinema, che si rivela incredibilmente affascinante e goduriamente “scomposto”, raggiungendo una vetta di bellezza nella scena della lotta nel fango. Mentre è sicuramente poco riuscito, il brutto “Beautiful”(2008) dell’anonimo Jae-Hong Jeon, che rovina una buona sceneggiatura per realizzare un film innocuo dal punto di vista visivo e che difetta di una recitazione decisamente poco curata.

L’unico vero passo falso del regista coreano resta “Dream” (2008), oggetto misterioso, frutto di una coproduzione nippocoreana. Un film bello, ma che non raggiunge quasi mai le vette tipiche del suo cinema, preferendo soffermarsi su una poesia quasi forzata e molto meno affascinante. Le premesse per il capolavoro ci sono e ,anche l’idea di far recitare l’attrice protagonista in coreano e l’attore in giapponese, per sottolineare l’incomunicabilità tra i due sessi, è geniale; ma ne esce un film che poco aggiunge alla sua filmografia. Il finale, splendido e puramente filosofico, eleva il film ad un gradino più alto, ma “Dream” resta “solo” un buon film.

E poi, “Arirang” (2011), il suo attesissimo ritorno. Un documentario sperimentale che diventa, con grazia, un suicidio artistico. La possibilità di scavarsi dentro e di riflettere su ciò che si è compiuto. Un film girato in digitale e senza soldi, nato da una depressione, che vede nella creazione di una pistola (sul cui manico viene marchiato il nome del regista), l’occasione per dimenticare e sparare dritto sul passato, per reinventarsi e riscoprirsi. Kim Ki-Duk si autocelebra e si annulla, mostrandosi non come una star, ma come un quasi-barbone che vive in uno scantinato, circondato da spazzatura e da locandine dei suoi film. Un disagio mai così sottolineato con completezza e precisione, e che è stato premiato a Cannes (nonostante i diverbi tra il regista e il Festival) con il premio “Un Certain Régard”). Ed è ancora capolavoro. Il nuovo capolavoro di uno dei registi più visionari e geniali.




Guardare un suo film vi cambierà profondamente.

“Difficile dire se la vita sia la realtà o un lungo, eterno, sogno” (Ferro 3)

1 commento:

  1. io invece direi che in Dream, nella scena del dramma nel campo di grano, kim raggiunge la vetta più alta della sua intera filmografia per intensità drammatica.
    comunque a parte questo gran lavoro, complimenti.

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