sabato 8 ottobre 2011

Poetry



Poetry
Corea Del Sud, 2010. Di Lee Chang-Dong. Con Jeong-hie Yun, Nae-sang Ahn, Da-wit Lee, Hira Kim, Yong-Taek Kim. Genere: Drammatico. Durata: 139'

"Scrivere una poesia non è difficile. Piuttosto, è difficile avere il cuore adatto per farlo".

Mi-Ja è una vispa signora sulla soglia dei settant'anni che convive con il nipote adolescente e turbolento. La sua vita scorre tranquilla, lavorando come badante part time, fino a che non scopre una cosa agghiacciante: il nipote, con un gruppo di amici, ha spinto al suicidio una coetanea. Ma la donna deve affrontare un altro male che l'affligge: l'alzheimer. Sarà grazie alla poesia, che la protagonista riuscirà a vedere il lato bello delle cose e a reagire contro la sua sofferenza.

Dolente, spiazzante, splendido. Torna Lee Chang-Dong, dopo lo straordinario "Secret Sunshine" di qualche anno fa, e dopo aver ancor prima sconvolto Venezia per la bellezza sublime di quello che resta il suo capolavoro, "Oasis" (2003). "Poetry" diventa il nuovo punto di non ritorno della sua filmografia, poco profilica, ma praticamente composta solo da grandissimi film, presentato al Festival Di Cannes 2010, il film presenta tutti gli elementi tipici del suo cinema: la potenza dell'amore e della memoria, la forza nell'agire, nel vivere, il desiderio per la normalità sia fisica che quotidiana e il desiderio di essere desiderati (come l'handicappata di "Oasis", anche l'anziano signore affetto da demenza senile vorrebbe fare l'amore un'ultima volta prima di morire) , quando si è ritagliati fuori dalla società.

Ne esce un acquerello che non ha nulla della disperazione esasperata di "Secret Sunshine", pronto a puntare il dito contro la baroccheggiante retorica cattolica e contro l'arroganza del genere umano. Se quello era un film dove cadeva il puro e crudo nichilismo del regista coreano, in "Poetry" aleggia un senso di efferato ottimismo nella seppur devastante tragedia, sottolineato dal comportamento della protagonista, incarnata da una sublime Jeong-hie Yun che come tutte le attrici di lee Chang-Dong è straordinaria ed eclettica nella recitazione, sofferta quanto autoironica, capace di sorridere o piangere a dirotto, diventa un'evoluzione della donna martire di Dong, dopo lo spietato e disperato ritratto della protagonista di "Secret Sunsine" o la delicatezza e l'umanità nel descrivere una protagonista non facile come in "Oasis": è una donna pronta a tutto, capace di essere subdola, romantica, di arrossire. Mi-Ja è umana ai massimi termini e per questo commuove.

Così come non c'è da meravigliarsi se è l'unica che, alla fine del film, scrive una poesia e che la dedichi alla ragazza morta e al dolore di sua madre.

Il film segue una pista nota, proprio perchè neorealista: Studia le tattiche per entrare nel cuore di chi vede, senza cercare lacrime. Manca il commento musicale, manca retorica, manca esasperata visione poetica (nonostante il film sia incentrato proprio sulla poesia come strumento di fuga), proprio perchè è così che deve andare.

E la genialità di Dong, in queste due ore e venti di film, si palesa soprattutto negli ultimi, straordinari ,venti minuti: dove i personaggi devono fare i conti con la realtà e accettare il loro destino, senza più lottare. Perchè è inutile. Tanto vale esprimersi allora. Immedesimarsi nella natura stessa del proprio dolore per ucciderlo, chiudendo con un pianosequenza da mozzare il fiato, uno dei film più suggestivi e riusciti di quest'annata. Non perdetelo.

"Sarò malata, starò soffrendo, ma dopotutto sono felice".

IL MIO VOTO: 9.5








Trailer: 



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